Penale Societario

PENALE SOCIETARIO  1.Considerazioni introduttive Con la sintetica espressione «condizioni di procedibilità» si intende definire «un complesso di atti e fatti il […]

PENALE SOCIETARIO 

1.Considerazioni introduttive

Con la sintetica espressione «condizioni di procedibilità» si intende definire «un complesso di atti e fatti il cui mancato verificarsi impedisce l’instaurazione del processo penale» (1). Appartengono a tale categoria dogmatica la querela, che può essere proposta dalla persona offesa entro tre mesi dal giorno della notizia di reato, ove non vi abbia rinunciato; la richiesta di procedimento, che va presentata entro tre mesi dal fatto dal Ministro della giustizia perché possa procedersi per taluni reati commessi all’estero (artt. 8, 9, 10 c.p.) ovvero quando sia commesso contro il Presidente della Repubblica un delitto perseguibile a querela; l’istanza della persona offesa, necessaria perché possa procedersi per taluni reati commessi all’estero (artt. 9 e 10 c.p.); l’autorizzazione a procedere, che limita la giurisdizione penale di alcuni soggetti aventi uno status particolare, secondo il combinato disposto degli artt. 68 e 96 Cost.

Una delle novità introdotte dalla riforma dei reati societari, operata dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, è senza dubbio rappresentata dalla subordinazione della procedibilità di molte fattispecie all’esercizio del diritto di querela (2), con la conseguente attenuazione di fatto per tali figure delittuose del principio di ufficialità dell’azione penale.

Nel nostro ordinamento la verifica della fondatezza della pretesa punitiva è infatti sottratta alla disponibilità dei privati anche se per taluni delitti l’iniziativa dell’organo pubblico è espressamente subordinata dalla legge alla querela della persona offesa: attraverso il diritto di querela il privato autorizza il pubblico ministero a promuovere l’azione penale o «più semplicemente lo obbliga a concretamente verificare se, data una notizia di reato (già in precedenza pervenutagli, oppure trasmessagli con la querela medesima), sussistono o meno le condizioni per promuoverla» (3).

L’ampio impiego dello strumento della querela nel diritto penale societario, che nell’intenzione del legislatore avrebbe dovuto soddisfare esigenze deflattive ( 4 ), sembra tuttavia aver prodotto un diverso effetto, introducendo un principio parzialmente diverso da quello desumibile dal codice di rito, giustificato da una visione politico-criminale, diretta alla tutela primaria dell’integrità del patrimonio, al quale la querela sembra legata «a filo doppio» (5 ), con la conseguenza che l’utilizzo della querela conferma «lo spostamento del baricentro nella lesione al patrimonio del singolo, ribadendo che il bene protetto è pienamente disponibile dal singolo» (6).

La correttezza di tale affermazione deve essere ora verificata alla luce della riforma introdotta dalla l. 27 maggio 2015, n. 69, che ha rimodulato le fattispecie delle false comunicazioni sociali, limitando la procedibilità a querela alle sole ipotesi di condotte decettive commesse all’interno di società non soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, attribuendo in tali casi il diritto di querela alla società, ai soci, ai creditori e agli altri possibili destinatari della comunicazione sociale, secondo il nuovo disposto dell’art. 2621 bis, comma 2, c.c.

2. Il diritto di querela nei reati societari: profili generali

All’interno del sistema penale societario le fattispecie delittuose, la cui procedibilità è subordinata alla presentazione della querela da parte della persona offesa dal reato, sono quelle disciplinate dagli artt. 2621-bis, comma 2, c.c. («Fatti di lieve entità»), 2625 c.c. («Impedito controllo»), 2629 («Operazioni in pregiudizio dei creditori»), 2633 c.c. («Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori»), 2634 («Infedeltà patrimoniale»), 2635 («Corruzione tra privati»).

A fronte di tale complesso mosaico normativo non risulta agevole enucleare i principi normativi comuni all’impiego dello strumento della querela nelle diverse figure delittuose. Al fine di un corretto inquadramento del diritto di querela all’interno del sistema penale societario, appare dunque utile procedere per ciascuna fattispecie secondo due direttrici: sotto un primo profilo, vanno individuati i soggetti legittimati a proporre la querela; il secondo passaggio si sostanzia invece nell’individuazione del dies a quo per la proposizione dell’atto.

2.1. Il diritto di querela e le false comunicazioni sociali in danno delle società, dei soci o dei creditori (art. 2621-bis, comma 2, c.c.)

La precedente micro disciplina prevedeva la procedibilità a querela della persona offesa per il delitto di false comunicazioni sociali in danno delle società, dei soci o dei creditori, ai sensi dell’art. 2622 c.c.: tale regime, oltre a rappresentare «il più significativo indice rilevatore di quello spostamento dell’asse della tutela penale dal bene della trasparenza societaria a quello dei singoli interessi patrimoniali pregiudicati» (7), palesava anche uno squilibrio normativo tra la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 2621 c.c. ed il delitto previsto dall’art. 2622 c.c., dal momento che il reato più grave era stato rimesso alla esclusiva iniziativa della persona offesa.

L’assetto normativo risulta oggi essere modificato dalla novella dettata dalla l. n. 69 del 2015, che ha introdotto la procedibilità d’ufficio quale regola operativa, mentre la querela è stata prevista per le limitate ipotesi, che possono essere ricondotte al dettato dell’art. 2621-bis, comma 2, c.c.

Secondo la disposizione de qua, infatti, quando le false comunicazioni sociali relative a società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell’art. 1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e salvo che costituiscano più grave reato, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale.

Il legislatore ha dunque operato in relazione alle società che non sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, ex art. 1 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, «una selezione della tutela del bene giuridico della trasparenza dell’informazione societaria: se nell’art. 2621 c.c la tutela accordata a un bene giuridico ‘intermedio’ e ‘super-individuale’ (…) in relazione al quale non è individuabile un destinatario specifico, ma al più soggetti danneggiati, nell’art. 2621-bis essa viene indirizzata anche a una concezione privatistica. Vi è infatti la necessità di individuare in concreto l’interesse di un determinato soggetto alla trasparenza dell’informazione societaria (in assenza del quale mancherebbe la legittimazione a proporre querela), interesse che si rifletterà ragionevolmente nella esposizione, quantomeno a pericolo, della sua sfera patrimoniale» (8).

La scelta legislativa non pare peraltro condivisibile, dal momento che la procedibilità a querela comporta uno «stravolgimento surrettizio della fattispecie di cui all’art. 2621, che perde la sua natura di reato di condotta e si trasforma in un reato di danno, i cui soggetti passivi sono appunto i titolari del diritto di querela» (9). D’altra parte, neppure la formulazione letterale della norma appare felice: oltre alla società, ai soci ed ai creditori, a chiusura vengono indicati anche gli altri destinatari della comunicazione sociale, con il conseguente indeterminato ampliamento del novero dei titolari del diritto di querela (10).

2.2. Il diritto di querela e l’impedito controllo (art. 2625 c.c.)

Gli amministratori che occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo o di revisione legalmente attribuite ai soci, ad altri organi sociali o alle società di revisione, sono puniti, ex art. 2625 c.c., con una sanzione amministrativa pecuniaria; se tuttavia dalla condotta tipizzata deriva un danno ai soci, ai sensi del comma 2, viene integrato un reato sanzionato con la reclusione fino ad un anno e la procedibilità a querela della persona offesa.

Il comma 3, inserito dall’art. 39 della l. n. 262 del 2005, stabilisce infine che la pena è raddoppiata, qualora si tratti di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione Europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante, ex art. 116 T.U.F.

In particolare, è stata censurata la scelta legislativa di limitare il novero dei soggetti passivi ai soli soci della persona giuridica, a fronte del richiamo operato dal comma 1 alle attività di ostacolo poste in essere anche ai danni delle società di revisione.

L’inclusione delle società di revisione tra i possibili soggetti passivi del reato avrebbe dovuto comportare la configurazione del delitto come illecito
«diretto a proteggere, accanto agli interessi della società e dei soci, anche la posizione di terzi, posta in pericolo al pari degli altri interessi tutelati, da condotte che, impedendo lo svolgimento dei prescritti controlli, possono consolidare con effetti irreversibili la cattiva gestione della persona giuridica»
(11).

Appare pertanto criticabile la decisione da parte del legislatore di tutelare unicamente i soci, che siano stati danneggiati dalla condotta degli amministratori e che riescano a provare il nesso eziologico che collega tale condotta al pregiudizio sofferto, mentre risultano prive di protezione le posizioni dei soggetti estranei alla compagine sociale, i quali potrebbero essere ugualmente danneggiate dalle condotte di impedito controllo poste in essere contro la società di revisione. A tale proposito è stato proposto di comprendere nella nozione di «soci» utilizzata dall’art. 2625 c.c., non solo tutti coloro che posseggano tale qualifica nel momento consumativo del reato, ma anche «quanti sono entrati a far parte della compagine societaria a cagione dell’attività di impedito controllo posta in essere nei confronti delle società di revisione, ravvisandosi in tal caso l’evento di danno proprio nell’aver acquistato una partecipazione in una persona giuridica di cui si ignoravano le effettive e veridiche condizioni» (12).

In ogni caso, vanno sottolineati i profili di problematicità che emergono dalla attribuzione del potere di querela al singolo socio, «ove si rifletta che il bene del regolare esercizio del controllo interno dovrebbe far capo alla società nella sua interezza (…), così da precludere ogni varco ad una privatizzazione dell’azione penale» ( 13 ). Del resto, è stato criticamente osservato che l’aggravante introdotta al comma 3 dalla l. n. 262 del 2005, attraverso «un richiamo a oggettività giuridiche e non esclusivamente a connotati patrimoniali pone la querela in posizione ulteriormente negativa nell’economia della fattispecie» (14). Per quanto attiene, inoltre, il profilo di individuazione del dies a quo per la presentazione della querela, al pari di quanto avviene per il delitto di cui all’art. 2622 comma 1 c.c., il termine va identificato nel momento in cui i soci assumono la piena consapevolezza dell’entità e rilevanza del danno patrimoniale sofferto (15).

Qualora, infine, la querela non sia proposta o venga successivamente rimessa, il fatto è punibile sulla base di quanto disposto dal comma 1 (16). Ed infatti, ove si ritenesse che la verificazione di un danno per i soci renda il fatto perseguibile solo ex 2625 comma 2 c.c., con la conseguente declaratoria di non procedibilità dell’azione penale in assenza della querela, «si darebbe vita all’assurdo di un illecito di pericolo punibile d’ufficio e di un reato di danno perseguibile a istanza di parte: con il risultato di favorire iniziative ricattatorie estranee alla tutela degli interessi in gioco e (…) di dare vita ad un evidente incostituzionalità per l’irrazionale trattamento di favore accordato alle ipotesi più gravi in confronto a quelle rientranti nella meno grave fattispecie di cui al comma 1» (17).

2.3. Il diritto di querela e le operazioni in pregiudizio dei creditori (art. 2629 c.c.)

L’art. 2629 c.c. subordina la procedibilità del reato alla querela della persona offesa e sanziona gli amministratori, che in violazione delle disposizioni di legge a tutela dei creditori, effettuano riduzioni del capitale sociale o fusioni con altre società o scissioni, cagionando danno ai creditori.

Ai sensi del comma 2, il risarcimento del danno ai creditori prima del giudizio estingue il reato.

Il nodo problematico che deve essere sciolto riguarda l’individuazione dei soggetti passivi del reato in commento.

A tale proposito sembra corretto ritenere che legittimati a presentare la querela siano solo quanti risultino titolari di un diritto di credito sorto antecedentemente all’apertura della procedura di riduzione del capitale sociale o di fusione o scissione: così come «solo a costoro la normativa civilistica riconosce il diritto di opporsi alla esecuzione della relativa deliberazione societaria, analogamente solo a quanti rientrano in tale categoria può essere riconosciuta la qualifica di soggetti danneggiati dall’illecito» (18).

Un ulteriore problema interpretativo si pone con riferimento alla individuazione dell’Erario statale quale persona offesa dal reato nell’ipotesi di riduzione del capitale sociale per esuberanza come modalità prescelta per attuare una distribuzione di utili dissimulata e perciò sottratta all’imposizione fiscale conseguente. Alla luce della «curvatura privatistica» (19) delle figure di reato introdotte dalla riforma societaria, l’Erario potrà al più assumere la qualifica di creditore nei confronti dei singoli soci, «ai quali andrà contestato nella sede competente di aver posto in essere una operazione elusiva, intesa come manovra che permette all’agente, senza dare luogo alla fattispecie imponibile prevista dalla legge tributaria, di conseguire per una via diversa il medesimo risultato economico, che legge intendeva assoggettare ad imposizione» (20).

Il termine per la proposizione della querela sembra potersi fissare a seguito dell’avvenuta conoscenza della delibera assembleare, che abbia disposto le operazioni di riduzione del capitale sociale, fusione con altre società o scissione, produttive di danno per i soci (21).

2.4. Il diritto di querela e l’indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633 c.c.)

Ai sensi dell’art. 2633 c.c., i liquidatori che, ripartendo i beni sociali tra i soci prima del pagamento dei creditori sociali o dell’accantonamento delle somme necessarie a soddisfarli, cagionano danno ai creditori sono puniti, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Il risarcimento del danno, ai creditori prima del giudizio, secondo quanto previsto dal comma 2 della norma in commento, estingue il reato.
La procedibilità dell’azione penale è dunque subordinata alla presentazione della querela da parte del creditore o dei creditori rimasti insoddisfatti.

Ne deriva che è legittimato a proporre la querela il creditore che abbia subito un pregiudizio di natura patrimoniale, «anche nel senso della mera diminuzione della garanzia creditoria costituita dal patrimonio della società in liquidazione, quale conseguenza diretta dell’operato dei liquidatori, posto in essere a vantaggio dei soci destinatari dell’illecito riparto» (22).

È stato inoltre osservato che, soprattutto laddove i liquidatori abbiano provveduto al riparto dell’attivo dopo l’accantonamento delle somme necessarie per il soddisfacimento delle obbligazioni, il creditore viene gravato dal difficile onere «di provare che il mancato soddisfacimento del suo diritto sia dipeso dalla illegittima condotta dei liquidatori, e non invece da circostanze imprevedibili al momento dell’effettuazione dell’accantonamento»
(23 ). Il dies a quo per la presentazione della querela, infine, decorre dalla produzione del danno nella sfera patrimoniale dei creditori sociali, che avverrà «di norma, al momento di deposito del bilancio finale della liquidazione (art. 2453 c.c.) o comunque nel momento, anche anteriore al deposito, cui i creditori abbiano effettiva notizia che i beni sociali sono stati ripartiti tra i soci e che non vi sono somme o accantonamenti sufficienti a soddisfare integralmente le ragioni creditorie» (24).

2.5. Il diritto di querela e l’infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.)


Secondo il disposto dell’art. 2634 c.c., si procede a querela della persona offesa contro gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale. Ai sensi del comma 2 della norma de qua, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni si applica anche se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.

In ogni caso, non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo (art. 2634 comma 3 c.c.) (25).

A fronte di tale articolata disposizione legislativa, deve essere anzitutto rilevato che la previsione del comma 2 non presenta particolari difficoltà interpretative, laddove individua nei terzi, titolari del bene posseduto o amministrato dalla società per suo conto: la persona offesa dal reato coincide infatti con il terzo titolare del bene, che è quindi legittimato a proporre la querela (26).

Appare invece più articolata l’individuazione della persona offesa con riferimento all’ipotesi base prevista dal comma 1 della disposizione in esame.
In primo luogo, sembra condivisibile l’opinione di chi ritiene che il diritto di querela competa esclusivamente alla società: tale conclusione si fonda sull’analisi strutturale del reato, da cui deriva che il disvalore dell’evento si concentra nell’offesa al patrimonio della società e che il disvalore dell’azione va individuato nella violazione di un dovere di fedeltà dell’agente nei confronti della stessa società, gli interessi della quale sono sacrificati a favore dei propri o di quelli di terzi (27).

Con particolare riferimento alle società di capitali, deve ricordarsi che in relazione alle «offese esterne», non provenienti dai detentori del potere sociale (quali amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori), la legittimazione a proporre la querela compete all’organo titolare del potere di gestione, salva la possibilità di una riserva statutaria in favore dell’assemblea ad opera dell’atto costitutivo, ex art. 2364 c.c.; nell’ipotesi invece di «offesa interna», proveniente dai detentori del potere sociale, quali amministratori, direttori generali, liquidatori, soggetti attivi del reato di cui di cui all’art. 2634 c.c., la legittimazione a proporre querela spetta in via esclusiva all’assemblea, analogamente a quanto è disposto in materia di responsabilità civile degli amministratori o dei sindaci (28).

Non sembra pertanto convincente l’opposta opinione secondo cui la persona offesa dal reato di cui all’art. 2634 c.c. deve essere individuata nel soggetto cui è riferibile il danno patrimoniale intenzionalmente cagionato dagli autori dell’illecito, con la conseguenza che potrebbe rivestire la qualifica di persona offesa, non solo il singolo socio, ma anche un estraneo alla compagine sociale (29). In particolare, la Suprema Corte ha riconosciuto al singolo socio «il diritto di querelarsi contro il presunto responsabile della infedeltà proprio perché deve riconoscersi allo stesso non solo la qualifica di danneggiato dal reato, ma anche quella di vera e propria parte lesa» (30).

Seppur apprezzabile il tentativo di superare le contraddizioni interne alla norma, l’interpretazione della Corte di cassazione appare in contrasto con il dettato dell’art. 2634 c.c., tanto più ove si consideri che «una società di capitali ha una propria personalità giuridica ed una propria autonomia patrimoniale, alle quali sono estranei i soci e i creditori. Dal che, non può negarsi in via di principio che l’offesa al patrimonio della società abbia in sé un suo disvalore, che può riflettersi solo indirettamente sull’interesse individuale del singolo socio e del singolo creditore» (31).

Un ultimo cenno merita il termine per proporre la querela, ex art. 124 c.p.

Il dies a quo viene individuato nel resoconto della condotta criminosa riferito in assemblea, in quanto solo in quel momento l’organo deliberativo della società acquisisce conoscenza dell’episodio delittuoso, ovvero dall’indicazione nell’ordine del giorno, in occasione della convocazione dell’assemblea, della necessità di assumere una decisione sull’operato dei detentori del potere sociale (32).

2.6. Il diritto di querela e la corruzione tra privati (art. 2635 c.c.)


Il nuovo delitto di corruzione tra privati, introdotto dall’art. 1 comma 76 l. 6 novembre 2012, n. 190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, ha sostituito la precedente fattispecie incriminatrice della infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, per consentire alla legislazione italiana di allinearsi alle convenzioni internazionali ratificate dal nostro Paese.

In primo luogo, la mancata attuazione della Convenzione di Merida delle Nazioni Unite contro la corruzione, che all’art. 21 richiede di incriminare
«the promise, offering or giving, directly or indirectly, of an undue advantage to any person who directs or works, in any capacity, for a private sector entity, for the person himself or herself or for another person, in order that he or she, in breach of his or her duties, act or refrain from acting», rappresenta senz’altro una delle lacune più evidenti del nostro ordinamento. Tale lacuna è resa ancora più grave dalle ulteriori previsioni che impongono al legislatore interno di adottare un meccanismo normativo diretto al contrasto della corruzione privata. In tale prospettiva vanno richiamati gli artt. 7 e 8 della Convenzione del Consiglio d’Europa, che impongono incriminazioni sostanzialmente identiche a quelle previste dalla Convenzione di Merida, nonché la Decisione quadro 2003/568/GAI, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato, direttamente vincolante per il nostro Paese, il cui termine di attuazione, previsto per luglio 2005, è da tempo «infruttuosamente scaduto» (33). La nuova fattispecie prevista dall’art. 2635 c.c., tuttavia, non ha comportato «un radicale stravolgimento» ( 34 ) della previgente fattispecie introdotta nel 2002 (35): il fatto tipico è rimasto quello oggetto dell’infedeltà a seguito di dazione, di cui ha conservato la struttura complessa caratterizzata da un duplice nesso di causalità. La condotta penalmente sanzionata, infatti, risulta integrata dal compimento ovvero dall’omissione di atti in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio a seguito della dazione o della promessa di utilità, la cui rilevanza dipende dalla causazione dell’evento rappresentato dal procurato nocumento alla società (36).

In ogni caso, una delle più significative novità introdotte è rappresentata dall’ultimo comma dell’art. 2635 c.c., secondo cui il reato è procedibile a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi.

La disposizione, richiamando le scelte operate da alcuni ordinamenti europei, introduce, pertanto, un elemento diretto a tutelare interessi pubblicistici, all’interno di un’architettura normativa rivolta a garantire interessi di matrice marcatamente privatistica. In altri termini, la nuova fattispecie sembra aver introdotto «un vero e proprio ulteriore evento del reato, dal problematico (a dir poco) accertamento e ambiguamente posto in rapporto di derivazione causale non già con la condotta illecita, bensì con il ‘fatto’ oggetto di incriminazione nel suo insieme, talché si potrebbe giungere a sostenere che la distorsione della concorrenza debba dipendere dal nucumento patrimoniale subito dalla società persona offesa, la cui produzione comunque resta imprescindibile anche qualora il reato diventi perseguibile d’ufficio» (37).

Nell’ipotesi prevista dall’art. 2635 c.c., anche nella sua nuova formulazione, dunque, la società va individuata quale persona offesa dal reato con una necessaria precisazione: se il reato è stato commesso dagli amministratori, la legittimazione non potrà che riconoscersi in capo all’assemblea; di contro, quando responsabili non siano i titolari dei poteri di gestione della persona giuridica, saranno costoro ad essere legittimati a presentare la querela (38).

Analogamente a quanto previsto con riferimento al reato di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c., il termine per la presentazione della querela inizia a decorrere dal momento in cui l’organo deputato a formare la volontà dell’ente in ordine all’esercizio del diritto di querela «prenda ufficialmente atto della necessità di provvedere in ordine alla condotta delittuosa, pregiudizievole per la società, posta in essere da uno degli esponenti dell’ente collettivo» (39).

3. La remissione della querela

Non si registrano particolari difficoltà interpretative con riferimento alla applicabilità dell’istituto della remissione della querela ai reati societari. La remissione, effettuata dalla persona offesa già querelante prima della decisione definitiva, nel rispetto delle forme dettate dal combinato disposto degli artt.
152 c.p. e 340 c.p.p., e che sia stata accettata dal querelato ex art. 155 c.p., estingue il reato (art. 152 comma 1 c.p.) (40).

Nell’ipotesi in cui la remissione sia intervenuta in un momento anteriore all’esercizio dell’azione penale, il pubblico ministero ha l’obbligo, ex art. 411 c.p.p., di chiedere l’archiviazione della notitia criminis; nel caso, invece, l’azione penale fosse stata esercitata, l’estinzione del reato in seguito alla remissione della querela può essere dichiarato in ogni stato e grado del processo.

L’attenzione dell’interprete è invece richiamata dalla clausola di salvezza contenuta nel dettato dell’art. 2621 c.c. («salvo quanto previsto dall’art. 2622»)
e, più in generale, dal rapporto tra la fattispecie contravvenzionale ed il delitto previsto dall’art. 2622 c.c.

La finalità di tale clausola sarebbe quella di assicurare l’applicabilità della fattispecie contravvenzionale, di cui all’art. 2621 c.c., anche alle ipotesi in cui, pur in presenza di un danno patrimoniale, non si possa procedere per il delitto di cui all’art. 2622 c.c., per mancanza di querela o per intervenuta remissione della stessa (41). È stato tuttavia osservato in senso critico che una simile conclusione passerebbe attraverso l’inquadramento della condizione di procedibilità prevista dall’art. 2622 c.c., in un tertium genus, «denominato querela-commisurazione, la cui funzione sarebbe appunto solo quella di punire più gravemente l’autore per la fattispecie delittuosa, facendo salva l’applicabilità della generale figura contravvenzionale in tutti i casi in cui il soggetto passivo rinunci a tale possibilità ovvero nelle ipotesi di omessa o tardiva proposizione della querela o, ancora, di remissione della stessa» (42).

In ogni caso, appare criticabile la scelta legislativa di stabilire per il reato più grave la procedibilità a querela della persona offesa e di ammettere poi la prosecuzione d’ufficio per un reato di identica natura e struttura, ma decisamente meno grave. Da ciò consegue un ulteriore effetto distorsivo, dal momento che la non proposizione o la remissione della querela non svolgerebbe alcun ruolo di incentivo al risarcimento del danno: apparirebbe pertanto manifesta l’evanescenza dell’intenzione deflativa, che ha spinto il legislatore a prevedere la procedibilità a querela per determinate tipologie di falso in bilancio (43).

4. La procedibilità dei reati societari commessi all’estero

Analizzati i profili essenziali del diritto di querela e rilevato come non siano registrabili peculiarità di sorta in ordine all’ambito di operatività dell’autorizzazione a procedere, appare necessario spostare l’attenzione sull’istanza e sulla richiesta di procedimento per i reati societari commessi all’estero ad opera del cittadino o dello straniero.

In particolare, l’istanza è un atto contenente la manifestazione di volontà della persona offesa da un delitto comune commesso all’estero e dalla quale il legislatore fa dipendere l’esercizio dell’azione penale: con l’istanza è richiesta la punizione del colpevole nell’ipotesi prevista dagli artt. 9 comma 2 c.p.
(delitto comune commesso dal cittadino all’estero per il quale è prevista una pena restrittiva della libertà personale diversa dall’ergastolo e inferiore nel minimo a tre anni di reclusione) e 10 comma 1 c.p. (delitto comune commesso all’estero a danno dello Stato o di un cittadino e punito con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno). A differenza della querela, il diritto di proporre istanza non si estingue con la morte dell’offeso ma si trasmette ai prossimi congiunti; inoltre l’istanza è irrevocabile, così come è irrevocabile la richiesta dell’autorità, alla cui disciplina rinvia genericamente l’art. 130 c.p. anche per quanto riguarda il termine, fatta salva l’applicazione delle disposizioni sulla querela, relative alla rappresentanza e alla capacità della persona offesa, nonché alle formalità di esercizio del diritto, con la conseguenza che l’istanza è proposta nelle stesse forme della querela (art. 341 c.p.p.) e può pertanto essere presentata anche davanti ad un agente consolare all’estero, ex art. 337 c.p.p.

La richiesta di procedimento è invece l’atto di natura amministrativa con cui il Ministro della Giustizia, portando a conoscenza del pubblico ministero un reato che, secondo la sua valutazione discrezionale, coinvolge determinati interessi politici o sociali, chiede la punizione del colpevole e rimuove un ostacolo all’esercizio dell’azione penale. La richiesta è necessaria per l’esercizio dell’azione penale in relazione ai reati commessi in danno del Presidente della Repubblica procedibili a querela e di cui ha valore sostitutivo (art. 127 c.p.); ai delitti previsti dall’art. 313 comma 4 c.p.; ai delitti politici o comuni commessi all’estero dallo straniero o dal cittadino; in caso di rinnovamento del giudizio, ex art. 11 c.p. La richiesta non può essere più proposta decorsi tre mesi dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce il reato; tuttavia, quando per la punibilità di un reato commesso all’estero è richiesta la presenza del colpevole nel territorio dello Stato decorre un termine diverso, perché la richiesta non può essere più proposta decorsi tre anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio medesimo. La richiesta è irrevocabile ed il delitto è procedibile anche se commesso ai danni di più persone. La richiesta di procedimento, infine, è presentata al pubblico ministero con atto sottoscritto dall’autorità competente, il Ministro o un funzionario delegato, ex art. 342 c.p.p., e viene allegata agli atti.

Applicando le disposizioni processuali richiamate al sistema penale societario, possono essere svolte alcune osservazioni: in primo luogo, l’unica contravvenzione del compendio normativo penale societario, l’illegale ripartizione degli utili e delle riserve, ai sensi dell’art. 2627 c.c., non può costituire oggetto della giurisdizione penale italiana, qualora sia stata commessa all’estero; per quanto invece riguarda i delitti perseguibili a querela della persona offesa, questi possono essere perseguiti soltanto a condizione che l’atto sia stato proposto tempestivamente dal soggetto legittimato; per la procedibilità, infine, delle fattispecie delittuose procedibili d’ufficio le norme processuali devono essere contemperate con le disposizioni dettate dagli artt. 9 e 10 c.p.

In particolare, in relazione ai delitti commessi dal cittadino all’estero, ex art. 9 comma 2 c.p., può essere rilevato che tutti i reati societari procedibili ex officio rispettano il requisito edittale previsto dall’art. 9 comma 2 c.p. (pena base non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione). Per quanto invece attiene ai delitti commessi dallo straniero all’estero, ai sensi dell’art. 10 comma 1 c.p., possono essere sottoposti alla giurisdizione italiana, previa proposizione della richiesta o dell’istanza), solamente quelle ipotesi di reato che non siano punite con la pena della reclusione comunque non inferiore nel minimo ad un anno, con la conseguenza che non possono essere assoggettati alla giurisdizione italiana, se commessi all’estero dallo straniero, i delitti di cui agli artt. 2626 c.c. («Indebita restituzione dei conferimenti»), 2628 c.c. («Illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante»), art. 2632 c.c. («Formazione fittizia del capitale»), art. 2636 c.c. («Illecita influenza sull’assemblea») (44).

Fonti

Diritto penale delle società, Cedam

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(1) La definizione è di R. ORLANDI, Procedibilità (condizioni di), in Dig. disc. pen., X, Utet, Torino, 1995, p. 43. In argomento sono inoltre sempre attuali le riflessioni di G. GUIDI, Procedibilità (condizioni di), in Nuovo Dig. it., Utet, Torino, 1939, p. 515 ss.; nonché di A. GAITO, Procedibilità (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., Giuffrè, Milano, 1986, p. 806 ss. Sul rapporto tra le condizioni di procedibilità ed il nuovo diritto penale societario si veda, ampiamente, E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. Giarda-S. Seminara, Cedam, Padova, 2002, p. 651 ss.
(2) Sul ricorso allo strumento della querela nel diritto penale societario si vedano, tra gli altri, M. CERESA-GASTALDO, Questioni processuali, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di A. Alessandri, Ipsoa, Milano, 2002, p. 129 ss.; F. GIUNTA, Lineamenti di diritto penale dell’economia, vol. I, II ed., Giappichelli, Torino, 2004, p. 162 ss.
(3) M. ROMANO, Pre Art. 120, in M. ROMANO-G. GRASSO, Commentario sistematico del codice penale, III ed., Giuffré, Milano, 2005, p. 264, il quale individua il fondamento politico-legislativo della querela in tre ordini di ragioni: la querela può essere prevista per ragioni di tenuità dell’interesse sociale tutelato dalla norma che si presume violata, per tener conto dei rapporti personali tra colpevole e soggetto passivo (che ad esempio possono suggerire di far dipendere la concreta punizione dalla volontà di quest’ultimo), ovvero per la tutela della stessa vittima del reato, in quanto la celebrazione del processo potrebbe comportare un’ulteriore pregiudizio alla sua sfera privata. La querela, quale condizione di procedibilità, possiede inoltre natura processuale e la sua presenza è indispensabile perché il pubblico ministero possa esercitare l’azione penale e instaurare validamente il procedimento penale; la mancanza della querela, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, preclude qualsiasi pronuncia sul merito, imponendo la declaratoria di non doversi procedere.
(4) In questo senso la Relazione governativa al d.lgs. n. 61 del 2002, in Guida al dir., 2002, n. 16, p. 29. Era stato tuttavia rilevato nei primi commenti, che la perseguibilità a querela, quale momento fortemente caratterizzante nella sistematica della riforma, non avrebbe prodotto «buoni frutti», A. ROSSI, La nuova tutela del capitale sociale, in Dir. pen. proc., 2002, p. 690.
(5) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 654.
(6) A. ALESSANDRI, I nuovi reati societari: irrazionalità e arretramenti della politica penale nel settore economico, in Quest. giust., 2002, p. 9; nonché A. DI BATTISTA, Beni e tecniche di tutela nel sistema penale societario, in Scritti di diritto penale dell’economia, a cura di P. Siracusano, Giappichelli, Torino, 2007, p. 18, cui si rinvia anche per i profili di comparazione con il regime di procedibilità per i reati societari nel diritto penale societario spagnolo.
(7) A. ROSSI, False comunicazioni sociali e false comunicazioni in danno della società, dei soci e dei creditori, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, a cura di C.F. Grosso, XIII ed., Giuffrè, Milano, 2007, p. 260.
(8) G. LUNGHINI, R.D. 16 marzo 1942, n. 262. Approvazione del testo del Codice Civile, Art. 2621-bis, in E. Dolcini e G. Marinucci (fondato da), Codice penale commentato, Tomo III, 4ª ed., Wolters Kluwer, Assago, 2015, p. 1849.
(9) S. SEMINARA, La nuova riforma in tema di delitti contro la P.A., associazioni di tipo mafioso e falso in bilancio – La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. proc., 2015, p. 818, il quale rileva, altresì, che “l’anomalia dogmatica”, rappresentata da un delitto di pericolo punibile a querela, «costituisca un’eredità avvelenata della disciplina previgente o invece risponda a una scelta meditata: certo è che la punibilità delle false comunicazioni sociali, commesse all’interno delle piccole società, ne esce drasticamente ridotta da un lato alla luce delle difficoltà di accertamento e dimostrazione del pregiudizio conseguente alla condotta, dall’altro a causa della possibilità di risarcimenti volti a evitare la presentazione della querela o ad ottenere la sua remissione. Né si trascurino le ipotesi in cui il falso, magari strumentale alla costituzione di riserve occulte, avvenga nell’interesse della società e con il consenso dei soci, senza pregiudizio dei creditori, ovvero i casi in cui il socio danneggiato ritenga conveniente astenersi dalla querela piuttosto che innescare il presupposto della responsabilità giuridica in base all’art. 25 ter D.Lgs. n. 231 del 2001»; nello stesso senso, tra gli altri, V. MANES, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in www.penalecontemporaneo.it, 22 febbraio 2016, p. 33.
(10) F. MUCCIARELLI, Le “nuove” false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in www.penalecontemporaneo.it, 18 giugno 2015, p. 28.
(11) C. SANTORIELLO, La tutela penale del regolare funzionamento della società, in La disciplina penale dell’economia, cit., p. 218.
(12) C. SANTORIELLO, La tutela penale del regolare funzionamento della società, cit., p. 219.
(13) S. SEMINARA, L’impedito controllo (art. 2625), in I nuovi reati societari: diritto e processo, cit., p. 467.
(14) A. ROSSI, Impedito controllo, in F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, cit., p. 477, nota 14.
(15) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 680.
(16) Sulla incoerenza tra il limite alla procedibilità di un illecito penalmente rilevante e la procedibilità anche d’ufficio del corrispondente illecito amministrativo, si rinvia al contributo di G. Messina.
(17) S. SEMINARA, L’impedito controllo (art. 2625), cit., p. 469.
(18) In tal senso, per tutti, C. SANTORIELLO, Il reato di operazioni in pregiudizio dei creditori, in La disciplina penale dell’economia, cit., p. 139. In senso contrario è stato tuttavia ritenuto possibile estendere la nozione offesa dal reato di cui all’art. 2629 c.c. anche a «chi creditore non è più o non è ancora e che possa provare di avere subito ugualmente danno patrimoniale dall’operazione societaria contestata», R. TARGETTI, Il capitale reintegrato estingue la punibilità, in Guida al dir., 2002, n. 16, p. 64. Sul punto si rinvia alla completa analisi svolta da A. Perini nel suo contributo.
(19) L’espressione è di A. ALESSANDRI, I nuovi reati societari: irrazionalità e arretramenti della politica penale nel settore economico, cit., p. 9.
(20) C. SANTORIELLO, Il reato di operazioni in pregiudizio dei creditori, in La disciplina penale dell’economia, cit., p. 140.
(21) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 680, nota 82.
(22) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 669. Sul punto si veda anche D. ROMANO, Liquidazione della società e tecniche di controllo del capitale sociale: la responsabilità penale dei liquidatori per l’indebita ripartizione dei beni sociali, in Riv. pen., 2006, p. 15.
(23) C. SANTORIELLO, Il reato di indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, in La disciplina penale dell’economia, cit., p. 171.
(24) P. DAMINI, Art. 2633 c.c. Indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, in AA.VV., I reati societari, a cura di A. Lanzi-A. Cadoppi, Cedam, Padova, 2007, p. 178.
(25) Sull’iter legislativo della fattispecie in esame, E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 670 ss.
(26) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 670. In argomento si veda anche S. GIAVAZZI, Infedeltà patrimoniale e potere di querela, in Società, 2007, p. 1285 ss., cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia riportata.
(27) P. ALDOVRANDI, Art. 2634 c.c. Infedeltà patrimoniale, in I reati societari, cit., p. 206 e s. Nello stesso senso, tra gli altri, V. MILITELLO, L’infedeltà patrimoniale (art. 2634), in I nuovi reati societari: diritto e processo, cit., p. 489; L. FOFFANI, Le infedeltà, in Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 365; A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Giappichelli, Torino, 2004, p. 161 e s.; G. SCHIAVANO, Riflessioni sull’infedeltà patrimoniale societaria, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, p. 832; S. GIAVAZZI, Infedeltà patrimoniale e potere di querela, cit., p. 1287; C. SANTORIELLO, Il reato di infedeltà patrimoniale, in La disciplina penale dell’economia, cit., p. 186.
(28) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 673 e s.
(29) Sul punto si rinvia anche al contributo di P. CHIARAVIGLIO.
(30) Cass. pen., sez. V, 9.11.06, S.N., in Società, 2007, p. 1284, con nota critica di S. GIAVAZZI, Infedeltà patrimoniale e potere di querela, cit. In senso contrario alla pronuncia riportata, Cass. pen., sez. V, 17.1.03, n. 20267, in Il Fisco, 2003, n. 31, p. 4901. Attribuiscono il diritto di querela al singolo socio, A.L. MACCARI, Infedeltà patrimoniale, in AA.VV., I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta, Giappichelli, Torino, 2002, p. 158; R. ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale, in La riforma dei reati societari, a cura di C. Piergallini, Giuffré, Milano, 2004, p. 181; A. D’AVIRRO, L’infedeltà patrimoniale, in A. D’AVIRROG. MAZZOTTA, I reati «d’infedeltà» nelle società commerciali, Giuffré, Milano, 2004, p. 185 e s. Riconosce, invece, il diritto di querela anche all’estraneo della compagine sociale, che abbia subito un danno in seguito alla condotta tipizzata, G.G. SANDRELLI, Entra in scena la corruzione privata, in Guida al dir., 2002, n. 16, p. 70.
(31) S. GIAVAZZI, Infedeltà patrimoniale e potere di querela, cit., p. 1287, la quale osserva inoltre che, ragionando diversamente si correrebbe il rischio «di negare l’esistenza di un pregiudizio diretto e personale in capo alla società, finendo per “privatizzare” ulteriormente la disponibilità del processo e del reato – con possibili effetti negativi anche sul piano della negoziazione della querela – per di più in relazione ad una condotta che si caratterizza (…) per essere contraria all’interesse della società».
(32) Per tutti, C. SANTORIELLO, Il reato di infedeltà patrimoniale, cit., p. 186.
(33) F. VIGANÒ, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in www.penalecontemporaneo.it.
(34) In questo senso la Relazione dell’Ufficio del massimario, reperibile in www.penalecontemporaneo.it., p. 16.
(35) È stato autorevolmente osservato da E. DOLCINI, La legge 190/2012: contesto, linee di intervento, spunti critici, in www.penalecontemporaneo.it, che «anche l’attuale art. 2635 cod. civ. appare largamente inadeguato ad assicurare un’efficace tutela dei beni in gioco – beni interni e beni esterni all’impresa (patrimonio e buon funzionamento dell’impresa, libera concorrenza nel settore privato) -: sembra anzi prevedibile che la disposizione incriminatrice, oggi come ieri, resterà sulla carta».
(36) Sul punto si rinvia ampiamente al contributo di R. BRICCHETTI.
(37) In questi termini la Relazione dell’Ufficio del massimario, cit., p. 18 ss., in cui si sottolinea che il testo originario, licenziato in prima lettura dai due rami del Parlamento, prevedeva che il delitto di corruzione tra privati fosse perseguibile d’ufficio. Registrate le resistenze del mondo imprenditoriale, tuttavia, è stata prevista la procedibilità a querela della persona offesa, salvo appunto che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi. In argomento, tra gli altri, D. PULITANÒ, Legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190, in Cass. pen., Suppl. al volume LII – novembre 2012, n. 11, p. 15; G. MAZZOTTA, Il delitto di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.), in A. D’AVIRRO, I nuovi delitti contro la pubblica amministrazione. Commento alla legge 6 novembre 2012, n, 190, Giuffrè, Milano, 2013, p. 404 ss.;
(38) C. SANTORIELLO, Il reato di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, cit., p. 191. È stato inoltre osservato che «sebbene la nozione di “nocumento” risulti meno selettiva, in ordine alla individuazione del bene giuridico protetto, non pare che la cerchia delle persone offese dal reato possa essere estesa fino a racchiudere anche i soci che siano espressione della minoranza assembleare, i quali insoddisfatti della decisione in senso opposto adottata dall’assemblea, abbiano l’intenzione di presentare, uti singuli, autonomo atto di querela nei confronti dell’autore della condotta tipica», E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 677 e s.
(39) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 681. Sul punto, si veda anche, A. ZAMBUSI, Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità (art. 2635 c.c.): alcuni aspetti problematici, in Ind. pen., 2005, p. 1064.
(40) M. ROMANO, Art. 152, in M. ROMANO-G. GRASSO-T. PADOVANI, Commentario sistematico del codice penale, Giuffré, Milano, 1994, p. 41 ss.
(41) A. LANZI-C.M. PRICOLO, Art. 2621 c.c. (False comunicazioni sociali), in I reati societari, cit., p. 29.
(42) E. MUSCO, I nuovi reati societari, III ed., Giuffré, Milano, 2007, p. 49.
(43) C. SANTORIELLO, I reati di false comunicazioni sociali, cit., p. 63.
(44) E.M. MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, cit., p. 692.

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